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Mentone |
Scendiamo [Giorgio Lavagna ed il suo piccolo gruppo di partigiani imperiesi, ormai aggregati agli alleati] per la seconda volta in città [Mentone]; "Nettu" è fermato dalle autorità francesi e trattenuto per alcuni giorni in seguito alla denuncia fatta dalla famiglia di Castellar, contro la quale eravamo intervenuti.
"Alberto" assume il comando della nostra banda e, nel giorno stesso, si uniscono a noi alcuni giovani italiani, con i quali formiamo un gruppo di diciotto uomini.
Avevamo deciso con fermezza di combattere a fianco degli Americani e, senza indugiare, ci rechiamo al Comando militare alleato, mentre la città è sottoposta al bombardamento delle artiglierie tedesche.
sotto una grande tenda, completamente aperta, alcuni ufficiali seduti vicino ad un tavolo stanno consultando delle cartine geografiche; ci fermiamo a pochi metri da loro e "Alberto", che conosceva bene l'inglese, si fa avanti: osserviamo il nostro capobanda mentre saluta quel gruppo di ufficiali, uno di loro alzandosi gli porge la mano. Non potevamo capire le parole di "Alberto", ma potevamo immaginare il suo discorso e, con ansia, ne attendevamo l'esito. Un ufficiale, che sta seduto con i piedi appoggiati su una sedia, con un sorriso guarda i suoi colleghi e contemporaneamente guarda noi; spingendo con una mano una scatola di sigari sul tavolo e facendola scivolare verso il nostro capobanda, parla a fatica un italiano con accento fortemente meridionale; gli fa capire che è figlio di Italiani emigrati da molto tempo in Canadà, e si sente orgoglioso di avere incontrato uomini come noi.
Ci invita a ritornare il mattino seguente e ci fa accompagnare da un soldato al deposito militare per rifornirci di tutto il necessario.
Eravamo sicuri di essere riusciti nel nostro intento, perché presto avremmo combattuto al fianco di quell'esercito che, in quei giorni, potevamo ritenere il più forte dei nostri tempi.
Nei dintorni della città, nascosti dalle piante, mimetizzati con reti di corda, grossi pezzi di artiglieria erano già pronti ad entrare in azione, mentre numerosi automezzi militari continuavano a scaricare enormi quantità di materiale bellico.
Con l'apertura di molti negozi, la città sembrava riprendersi dopo l'ondata bellica da cui era stata travolta.
"Alberto" era riuscito a procurarsi un grosso pezzo di stoffa rossa con la quale ci eravamo fatti vistosi fazzoletti da mettere al collo. Colti dall'entusiasmo che l'arrivo degli Americani aveva suscitato nel nostro piccolo gruppo, l'entusiasmo garibaldino, nella nostra spensierata giovinezza ci eravamo dimenticati il pericolo e la paura. Nel contempo eravamo presi dall'ansia di conoscere le intenzioni dei nostri amici canadesi, con i quali speravamo di partecipare ad un'azione di guerra contro quel nemico che, per tanti giorni, aveva rappresentato per noi un'incubo.
Erano ripresi i duelli di artiglieria e, mentre i Tedeschi sparavano svariati colpi con lunghi intervalli di silenzio, gli Americani martellavano senza respiro tutta la zona del fronte e l'entroterra di Ventimiglia.
Annidato sulle rocce del confine, il nemico poteva ancora mettere a segno i colpi sul territorio francese sottostante che controllava. Nessuno immaginava che gli Americani ci avrebbero fatto partecipare al primo furioso assalto, su quelle rocce che dividono il confine al di sopra del ponte San Luigi.
9/9/19
È tornata l'alba, un fuoco infernale di artiglieria si abbatte sulla zona più violento che mai. Sibili e ululati di proiettili si confondono nello spazio sopra di noi, seguiti da assordanti fragori.
La guerra, che due giorni prima con l'arrivo degli America sembrava finita, era ripresa con tutta la sua spaventosa violenza.
Ritorniamo a Mentone dopo una notte trascorsa sotto i tiri incrociati delle due artiglierie; camminiamo rasentando i muri delle case, con l'impressione di essere più riparati dalle schegge.
Nella città, tornata quasi deserta, si vedono circolare solo jeep e automezzi militari, mentre i cittadini abbandonano in fretta le proprie abitazioni per rifugiarsi in aperta campagna.
Vaghiamo per le strade nell'attesa che "Alberto" torni dal Comando alleato e, incuriositi, osserviamo i pezzi di artiglieria che sparano senza sosta verso l'Italia.
Mentre ci avviciniamo a un gruppo di soldati per ottenere qualcosa da mangiare, giunge "Alberto" in compagnia di un ufficiale canadese; dall'espressione del suo volto intuiamo che ha notizie importanti da comunicarci e, mentre l'ufficiale ci guarda con un leggero sorriso, lui ci chiede chi di noi sia disposto a partecipare ad un attacco con i soldati canadesi.
In quell'istante rimaniamo senza parola, ci guardiamo meravigliati. Eravamo certi che non ci avrebbero rifiutati per qualche missione di guerra, ma farci partecipare ad un attacco al loro fianco era molto di più di quanto avessimo sperato, e non potevamo capire come ci avrebbero impiegati in una missione cosi importante, poiché non avevamo istruzione militare alcuna.
Sembra assurdo dire che quella notizia ci aveva fatto piacere. Certo un invito ad un ballo sarebbe stato più gradito, ma la guerra non era ancora finita e il nazismo, se pur agonizzante, agiva ancora più spietato che mai.
Potersi battere contro quei soldati, con l'appoggio di un esercito con cui eravamo sicuri di vincere, era per noi il sollievo più grande emerso da un esasperato avvilimento, sopportato per mesi senza possibilità di reagire.
"Alberto", anche lui preso dal nostro entusiasmo, sorridendo, ci fa segno di seguire l'ufficiale, il quale ci accompagna dove un'intera compagnia di soldati si preparava a partire.
Alla presenza di quegli uomini equipaggiati senza economia, rimaniamo meravigliati, e ciò ingigantisce dentro di noi l'entusiasmo per la nuova impresa che ci apprestiamo a compiere.
In quei minuti di stupore, davanti a quell'armamento formidabile, pensavo alla vita disagiata dei compagni rimasti nei boschi a soffrire la fame e che, quasi disarmati, dovevano difendersi da pesanti rastrellamenti, e battersi nella speranza di una conclusione vittoriosa della lotta.
Mi tornavano alla mente i compagni della Mezzaluna, in attesa di quelle armi che non avrebbero mai visto, mentre davanti a noi una montagna di materiale bellico sembrava sprecarsi.
Mi avvicino ad un camion e prelevo da una cassa cinque bombe a mano; alcuni soldati mi guardano e sorridono, rivolgendomi parole che non capisco.
Il capitano che ci avrebbe guidati in quella missione, sapendo di aver a che fare con dei partigiani, tramite "Alberto" ci ammonisce informandoci che se avessimo fatto dei prigionieri dovevamo tener conto delle convenzioni internazionali di guerra, evitando loro crudeli maltrattamenti o, peggio, uccisioni.
Dopo esserci riforniti di tutto il necessario per quella impresa, siamo pronti a partire.
Ci disponiamo in fila indiana alternati ai soldati; ci fa da guida l'unico ex partigiano francese che in quel momento si trova disponibile.
Un'ora di strada ci separa dalla zona operativa, ci inoltriamo su di una mulattiera mentre due soldati dietro di noi distendono un cavo telefonico, transitiamo da Castellar e "Alberto" si ferma dell'azione, non dovevamo perdere di vista; inginocchiato a terra e con lo sguardo fisso sulle postazioni nemiche, parlava al telefono da campo; erano attimi di attesa che non sapevo a cosa preludessero.
A nostra insaputa una nave da guerra alleata, al largo di Mentone, su ordine preciso del nostro comandante, si preparava ad aprire il fuoco di protezione.
Una giornata calda stava per finire, i raggi del sole illuminavano le rocce bianche davanti a noi emettendo un riverbero quasi fastidioso.
In quel breve tempo di silenzio, che dilungandosi diventava un tormento, nella mia mente prendevano forma i più assurdi pensieri: immaginavo il nemico dietro a quella barriera naturale con le armi puntate che attendeva il nostro attacco, mi tornavano alla mente i miei genitori che forse non avrei più rivisto, ogni cosa cui pensavo mi appariva mostruosa; ma nell'istante in cui lo sgomento sembrava dominare la mia mente, una secca detonazione mi faceva dimenticare ogni cosa.
Dal mare la nave da guerra, che in quei minuti di ansia avevo quasi dimenticato, spara la prima bordata, scuotendo l'intera vallata di Mentone.
Proiettili di grosso calibro, solcando l'aria sopra di noi, vanno ad esplodere sulle trincee dove il nemico pochi istanti prima attendeva in silenzio.
Alla prima detonazione ne seguiva una seconda, pezzi di roccia e schegge infuocate rotolavano fino a noi, per venti minuti un bombardamento senza respiro martellava quelle postazioni che, poco dopo, avremmo dovuto occupare.
Quell'attacco inaspettato di artiglieria mi aveva fatto rabbrividire, ero convinto che, giunto in quelle trincee, avrei trovato solo resti di carne umana e, avvilito da un'immaginario massacro, dentro di me era scomparso l'entusiasmo di una lotta agguerrita; quell'assalto aggressivo, desiderato fino a pochi minuti prima, mi sembrava non avesse più senso.
Distesi a terra guardiamo il capitano con il telefono in mano, che dirige il tiro dell'artiglieria, poi ad un tratto dal mare cessano di sparare. Il primo attacco condotto dall'esercito canadese alla frontiera di Mentone, dove i Tedeschi ripiegando si erano trincerati, poteva dirsi portato a termine con la partecipazione dei garibaldini italiani.
Si era così realizzato quel sogno da molto tempo atteso: in uno scontro diretto la nostra prima vittoria contro un nemico che fino a quel momento non ci aveva dato pace.
Il mattino seguente saprò, dal mio comandante ancora emozionato, che durante l'attacco il capitano, entusiasta del nostro comportamento, aveva annunciato al centralino da campo di Castellar che i garibaldini italiani in quel momento stavano rastrellando la cima del monte.
Durante quella notte ero rimasto nella postazione conquistata in compagnia di due soldati canadesi; sopra di noi si sentivano fischiare i proiettili delle artiglierie dei due eserciti opposti, mentre nel fondo valle si vedevano i bagliori delle esplosioni.
Trascorsa la notte con il timore di essere attaccati dai mortai nemici, col sopraggiungere dell'alba arrivano altri soldati a sostituirci.
Alla base del pendio roccioso mi ritrovo con quei compagni che, come me, avevano trascorso la notte su quella vetta conquistata il giorno prima.
Scendiamo verso Castellar, ognuno di noi racconta ogni minuto di quell'assalto indimenticabile; assalto vittorioso cui avevamo notevolmente contribuito, dimostrando di essere coerenti nel servire la nostra causa.
Giunti in paese, contornati da un affettuoso cameratismo americano, ci lasciava avviliti la fredda accoglienza dei civili francesi; purtroppo per loro noi restavamo ancora Italiani, nonostante tutto, e come tali potevamo meritare solo il loro disprezzo.
Gli Americani avevano capito che potevamo essere per loro un valido aiuto, e il 13 di settembre, a spese del Comando alleato, venivamo alloggiati provvisoriamente alla pensione Mimosa nella città di Mentone. Giorgio Lavagna (Tigre), Dall'Arroscia alla Provenza - Fazzoletti Garibaldini nella Resistenza, Ed. A. Dominici, Oneglia - Imperia, 1982
La disillusione di Giorgio Lavagna
Molti degli scritti di memoria partigiana comunista pubblicati in questi anni si chiudono con un alone di ottimismo: vedere le nuove lotte, operaie e studentesche, dà ai vecchi partigiani la speranza che il momento del rinnovamento sia arrivato; non è così per gli ex combattenti non politicizzati.
Il congedo di Giorgio Lavagna si stacca da questo troppo semplicistico ed illusorio ottimismo proponendo una lettura disillusa dei risultati raggiunti dalla democrazia nata con la Resistenza. Egli è stato partigiano garibaldino in Arroscia, e poi, passate le linee in Provenza, si è unito all’esercito regolare francese. Dallo scritto non emerge alcuna appartenenza politica: a spingerlo verso la lotta è l’odio verso i fascisti e il bisogno astratto di libertà. La sua conclusione è amara, poiché si rende conto a distanza di anni che gli obiettivi per cui ha combattuto non sono stati raggiunti:
"A distanza di oltre trentacinque anni, dopo aver appena terminato il racconto di un passato doloroso, nella mia mente frugo tra i ricordi di quei giorni, quando sognavo un paese libero, diretto da uomini non più fascisti, non più servi dei nazisti, ma democratici. […] Mentre mi rivedo nel fondo di quella cava, davanti agli amici che, nel riabbracciarmi, mi ammiravano, penso se era il caso di sentirmi orgoglioso per avere lottato e sofferto per migliorare una Patria nella quale ancora prevalgono incontrastati il sopruso, l’ingiustizia, il crimine. Alla fine di un immane conflitto, forse troppi che, come me, troppo presto avevano creduto al risorgimento della nostra Italia grazie all’azione di uomini nuovi, capaci e responsabili, sono stati delusi. Questo è il vero crimine. Ed è vero crimine pure che i partigiani abbiano da attendere ancora l’attuazione di quei principi per i quali hanno combattuto e, a migliaia, sono caduti". <281
Si vede qui la disillusione del protagonista di fronte ai fatti contemporanei. Egli sente che gli scopi della Resistenza non sono stati raggiunti, ma non incita le nuove generazioni a continuare la lotta in modo che quei principi vengano realizzati in futuro.
[NOTA]
281 Giorgio Lavagna (Tigre), Dall'Arroscia alla Provenza - Fazzoletti Garibaldini nella Resistenza, Ed. A. Dominici, Oneglia - Imperia, 1982, pp. 150-151.
Sara Lorenzetti, Ricordare e raccontare. Memorialistica e Resistenza in Val d’Ossola, Tesi di Laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” - Vercelli, Anno accademico 2008-2009