mercoledì 10 marzo 2021

Roia che, visto dalla nostra posizione, appariva come un torrentello da oltrepassare con un salto

[...]
28/8/44 - Ripartiamo diretti alla Mezzaluna, durante la giornata raggiungiamo i freddi casoni della banda di "Giulio" [Libero Remo Briganti]; rivedo i miei compagni ancora in attesa dei lanci, mi soffermo alcuni minuti con loro […] 25/8/44 […] Siamo di fronte uno all’altro, ci guardiamo meravigliati, poi scoppiamo dal ridere; mi racconta che è reduce da un imponente rastrellamento subìto sulle pendici del monte Grammondo. Ora cerca [Netu/Nettu/Nettù, Ernesto Corradi, in quel momento ancora comandante di un distaccamento, Grammondo, della V^ Brigata d’Assalto Garibaldi Luigi Nuvoloni della II^ Divisione Felice Cascione] il Comando di divisione per fare il suo rapporto. Mi propone di seguirlo, dicendomi che sarebbe sceso a Torrazza [Frazione di Imperia] e ritornato, poi, in Francia. Il desiderio di rivedere i miei genitori era immenso e l’idea di avvicinarmi agli alleati mi allettava molto. Illuso di poter entrare a Porto Maurizio sopra un carro armato americano, accetto la proposta e decido di seguirlo. Convinto dall’entusiasmo del mio compagno, abbandonavo la vita partigiana nelle montagne imperiesi, mentre una nuova spericolata avventura mi avrebbe condotto oltre confine, dove pensavo di arruolarmi in un esercito regolare per combattere, con maggiori probabilità di riuscita, quel nemico da cui non volevo più fuggire e che volevo vincere. Saluto i compagni, dispiaciuti per la mia decisione, che rimangono là in attesa di quelle armi che non arriveranno mai, e mi avvio con “Nettu” verso il Comando di divisione. Terminato il suo rapporto sulla sconfitta subìta sul monte Grammondo, “Nettu” ottiene da “Giulio”, commissario di divisione [Libero Remo Briganti], il permesso di partire per la Francia, ed io con lui.
29/8/44 - Con una lunga camminata, prima di sera raggiungiamo Triora […]
30/8/44 - Prima di partire per la Francia, “Nettu” mi fa capire che vuole attuare un colpo di mano nei pressi di San Lorenzo al Mare […]
2/9/1944 - […] Alcuni miei compagni sono già pronti a partire [da Pigna (IM)], ma "Nettu", che ci osserva poco più in là, ci fa segno di attendere.
In quel mattino di settembre il sole caldo ci spinge all'ombra esterna di una baita vicina, mentre attorno a noi i partigiani di "Vittò" [Ivano, Giuseppe Vittorio Guglielmo] sono in vivace movimento.
Appoggiati a quel muro di paglia, rivolti al confine francese, discutiamo del nostro imminente viaggio guardando da lontano quelle cime rocciose velate dalla foschia, che si innalzano verso il cielo come un muro invalicabile, eretto sul nostro cammino.
Quelle cime, forse sorvegliate dal nemico, potevano essere la fine del nostro viaggio.
L'imprevedibilità del nostro destino lasciava libero spazio alla nostra fantasia e nelle nostre menti prendevano forma i più irrealizzabili progetti, mentre davanti a noi si preparavano giorni difficili.
Durante le pause dei nostri discorsi mi assaliva il pensiero dei miei genitori che, inconsapevoli della mia decisione, sfidando il pericolo dei rastrellamenti continuavano a cercarmi in quei posti da cui mi ero già allontanato, mentre io, incurante del pericolo cui andavo incontro, sentivo un gran desiderio di raggiungere il confine ad ogni costo.
Passano le ore e nell'attesa vaghiamo per l'accampamento, confondendoci con i partigiani di "Vittò" […]
Prima di mezzanotte un partigiano mandato da "Nettu" bussa violentemente alla porta svegliandoci di soprassalto.
Mi alzo dal tavolaccio stordito dal sonno, con le ossa che mi fanno male scendo con i compagni in piazza dove "Nettu" e "Alberto" ci attendono con tre civili e un camion, pronti a partire verso il posto convenuto.
[...] Verso l'una, nel pieno della notte, ci fermiamo in un punto in cui la strada, allargandosi, forma uno spiazzo circondato da grossi abeti oltre i quali il buio ci impedisce di vedere.
Scendiamo a terra caricandoci gli zaini sulle spelle; con poche parole i nostri accompagnatori ci suggeriscono il percorso da seguire e, augurandoci buona fortuna, risalgono sull'automezzo allontanandosi per la strada da cui eravamo arrivati.
[3 settembre 1944]
[...] Con fare nervoso "Nettu" si guarda attorno, poi, con gesto sbrigativo, ci indica la direzione da prendere.
Ci inoltriamo su una strada carrozzabile che nel buio sembra sconnessa e abbandonata. Dietro al nostro capo camminiamo in fila indiana senza capire con esattezza la giusta direzione. Dopo alcune ore di strada ci fermiamo sfiniti e, appena seduti a terra, ci addormentiamo; trascorsi pochi minuti la mano del nostro capo, scrollandoci una spalla, ci sveglia.
Nuovamente in marcia, per farci acquistare fiducia durante il faticoso cammino, come punto di riferimento ci indica il monte Abellio che sta davanti a noi.
Il monte appariva come una massa oscura che si delineava nel cielo stellato, ad intervalli illuminato dai pallidi bagliori delle granate che esplodevano oltre confine.
La notte è fonda e la meta ancora lontana; camminiamo quasi barcollando dietro al nostro instancabile capobanda che, durante quella marcia forzata, stanco di sentirci inveire, ci concede qualche sosta di pochi minuti.
Con i primi chiarori dell'alba abbandoniamo per prudenza la vecchia strada e, percorrendo un sentiero di campagna, appena giorno ci troviamo nella valle Roia.
Ci muoviamo con prudenza sotto gli alberi di ulivo e, lentamente, scendiamo verso il paese di Airole; ci fermiamo a un centinaio di metri da esso e in due ci avviciniamo con cautela all'abitato; giunti a pochi metri dalle case scorgiamo sulla strada alcuni autocarri dell'esercito italiano occupati dai militi della brigata nera.

Il fiume Roia poco a monte dell'abitato di Airole (IM)

Ritorniamo subito indietro informando i compagni di quella pericolosa situazione. Davanti a noi rimaneva la preoccupante traversata del Roia che, visto dalla nostra posizione, appariva come un torrentello da oltrepassare con un salto.
Sull'altra sponda, a circa trenta metri di altitudine sul livello del fiume, scorreva la strada nazionale che dovevamo attraversare; purtroppo la strada era percorsa da numerosi automezzi militari e il guado si presentava davvero poco agevole; c'era il rischio di restare a lungo un bersaglio facile e scoperto per il nemico.
Quella barriera liquida rappresentava per noi un'ostacolo alquanto pericoloso, mettendoci in seria difficoltà.
A causa della vicinanza del nemico non possiamo permetterci di discutere a lungo su come raggiungere l'altra sponda. Calcolata ogni possibilità optiamo, con unanime consenso, per la soluzione che inizialmente appariva più rischiosa.
Sotto di noi il ponte della ferrovia che unisce Airole a San Michele, apparentemente abbandonato ma completamente scoperto davanti alla strada nazionale, rimaneva per noi il mezzo più rapido attraverso il quale proseguire verso la meta che volevamo raggiungere.
Fermi e decisi, aggrappandoci ai cespugli, scivoliamo giù in mezzo alla roccia e raggiungiamo il piede del viadotto sulla sponda sinistra del fiume.
Dallo stato in cui si trovavano i binari si poteva facilmente capire che l'abbandono di quella linea ferrata era totale. Per alcuni minuti restiamo nei pressi del ponte nascosti dietro ad un muro.
Per attraversare il viadotto avremmo impiegato all'incirca un minuto, dovevamo approfittare quindi dei rari momenti in cui il traffico, sulla strada di fronte a noi, si arrestava.
Ascoltiamo nervosi il rumore delle macchine, nell'attesa di un momento di silenzio.
Trascorrono alcuni minuti interminabili, ci sentiamo stritolati da un'ansia che ci toglie il respiro, poi ad un tratto il frastuono dei motori si affievolisce allontanandosi.
"Nettu", che fino a quel momento si era mantenuto nascosto, esce allo scoperto con il corpo proteso in avanti, guarda ancora per un istante il viadotto sospeso nel vuoto sul Roia, poi, deciso, parte correndo e, in pochi secondi, raggiunge l'altra sponda; per alcuni istanti rimaniamo indecisi, ma, mentre sulla strada persiste ancora il silenzio, anche noi partiamo saltando di corsa sulle traversine dei binari e riusciamo tutti a raggiungere il nostro capobanda.
Un tratto di galleria che copre quella strada percorsa dal nemico facilita il nostro passaggio, infatti proprio mentre ci troviamo sulla sua sommità, sotto di noi transita un'autoambulanza scortata da un camion tedesco.
Ci allontaniamo in fretta per raggiungere la cima di una collina, intanto sulla strada il traffico degli automezzi militari continua inarrestabile.
Superato il grande ostacolo del Roia, ci dirigiamo verso il paese di Collabassa [Frazione di Airole IM)]; sul sentiero, fra alberi di pino, incontriamo un giovane di Olivetta San Michele e lo convinciamo a seguirci; il suo nome di battaglia sarà "Pineta", proprio a ricordo del luogo in cui l'abbiamo incontrato.
 

Uno scorcio di Val Roia, visto da Collabassa

Oltrepassato l'abitato di Collabassa proseguiamo verso il torrente Bevera e, prima di sera, giungiamo nel paese di Torri [Frazione di Ventimiglia (IM)]; ci fermiamo pochi minuti, il tempo utile per informarci sul movimento dei Tedeschi, dopo di che ci allontaniamo verso Villatella [altra Frazione di Ventimiglia (IM)].
Sopraggiunta la notte ci fermiamo in una casa abbandonata di campagna. Ormai il confine tanto sognato era vicino, e ognuno di noi sperava di trovare oltre quello la libertà desiderata ormai da troppo tempo.
Il mattino seguente ci rimettiamo in marcia su quell'ultimo tratto di strada che ci separa dalla nostra meta, le granate delle artiglierie americane sembrano esplodere a pochi passi da noi, camminiamo fuori strada, muovendoci fra i cespugli, temendo di incontrare pattuglie nemiche. L'entusiasmo di giungere sul suolo francese ci faceva dimenticare il pericolo che poteva nascondersi sul nostro cammino.
Diretti verso quelle cime rocciose che delimitavano il confine, ci sembrava già di aver concluso la nostra avventura.
Durante l'ascesa verso quel valico mi sentivo sopraffatto dall'emozione, mentre pensavo ai compagni lasciati a combattere una guerra di cui non potevo più essere partecipe.
Avvicinandomi alla vetta, con le spalle tristemente rivolte al mio paese, giuravo a me stesso che sarei tornato dalla mia gente, combattendo quel nemico che oggi, costretto dalle circostanze, fuggivo.
Giunti ormai a breve distanza dal nostro traguardo, ci fermiamo per prudenza dove la vegetazione può ancora nasconderci.
Davanti a noi un prato verde, quasi pianeggiante, terminava sulla sommità della montagna oltre la quale c'era la Francia.
Per alcuni istanti rimaniano ad osservare quel tratto di valico il quale potrebbe nasconderci un agguato mortale.
Mimetizzati nella macchia di arbusti, scrutavamo quelle rocce sulle quali una leggera brezza di ponente muoveva cespugli di erba fiorita, nata fra le crepe.
Prima di uscire allo scoperto, controlliamo attentamente l'ultimo tratto del percorso. Alcuni corvi, appollaiati su quella vetta, ci facevano supporre in modo quasi certo che quella postazione di confine fosse abbandonata.
Usciamo allo scoperto con le armi in pugno, disponendoci a ventaglio, circondati da un silenzio impressionante; con lo sguardo fisso su quelle rocce aride, avanziamo verso quel valico che per noi rappresenta una conquista; giunti sulla linea di demarcazione, quel posto ci appare abbandonato e deserto. Davanti a noi un terreno quasi nudo di vegetazione dava inizio a quella vallata che in basso, coprendosi di verde, terminava ai bordi della città di Mentone.
[4 settembre 1944]
Sono le ore sedici meno venti del giorno 4 settembre 1944, inginocchiati, il busto eretto, le mani strette sul fucile, guardiamo delusi il forte di Monte Agel, bombardato dalle artiglierie degli Americani, i quali credevamo fossero già giunti al confine da molti giorni.
Stentavamo a credere che gli alleati fossero ancora oltre quella montagna, ma purtroppo dovevamo rassegnarci ad attenderli su un territorio ancora occupato dal nostro nemico.
Completamente isolati dai nostri Comandi, con gli zaini vuoti, ci preparavamo ad affrontare giorni difficili.
Alle nostre spalle rimaneva l'Italia, con i nostri ricordi e le nostre famiglie, soggiogate da un nemico che, prima di essere vinto, era ancora pronto ad uccidere, a bruciare, a saccheggiare ogni cosa; con i nostri compagni che, lottando sui monti, attendevano l'arrivo degli alleati.
Credendo di riconoscermi tra i partigiani uccisi, qualcuno aveva sparso la notizia della mia morte, mentre i miei genitori ignari attendevano fiduciosi il mio ritorno.
Per alcuni minuti ci soffermiamo a meditare su quella sconvolgente verità, che ci avrebbe lasciato sperare solo per i giorni successivi, poi, ripresi dalla nostra amarezza, decidiamo di scendere in territorio francese.
Prima di lasciare quel valico, mi volgo ancora una volta verso la mia terra, sulla quale non so quando sarei tornato.
Rimango alcuni istanti ad osservare il panorama che mi circonda, mentre i miei compagni si avviano sul sentiero in discesa dietro al comandante; rassegnato al mio destino mi unisco a quel gruppo che va verso l'ignoto.
Dopo aver espresso i sentimenti che ho provato nell'attraversare il confine italo-francese, tralascio un momento di descrivere il proseguimento della mia avventura per illustrare le figure dei miei compagni con i quali avevo accomunato il mio destino.
"Nettu", ultra quarantenne, l'amico con il quale avevo lasciato il mio paese; era dotato di un grande spirito d'avventura; benché amante più della forma che della sostanza delle cose, attendeva la fine della guerra per aver modo di saldare i conti personali rimasti in sospeso con chi aveva contrastato il suo modo di vivere e contestato le sue idee.
"Alberto", anche lui non più giovane, da sempre convinto antifascista, si era ovunque esposto in prima persona nella lotta, cominciata per lui molti anni prima che per noi.
"Pineta", già combattente nei battaglioni d'assalto a Tobruch, aveva sofferto la guerra e il suo unico desiderio era di vederla finita.
I rimanenti sei, di cui io facevo parte, erano tutti ragazzi sotto i vent'anni, nati e cresciuti in epoca fascista; non avevano mai conosciuto la vera libertà.
"Bellagamba", un ragazzo veneto molto coraggioso, rientrerà in Italia attraversando le linee tedesche prima che finisca la guerra. "Lupo", con molti problemi familiari alle spalle, morirà per un crudele e banale incidente, dovuto alla troppa leggerezza di un nostro compagno di banda, e verrà sepolto nel cimitero di Roquebrune.
"Bolide", romagnolo, comunista per tradizione, era fuggito dalla Todt per raggiungere le file partigiane sulle montagne di Ventimiglia.
"Fracassa", emigrato siciliano, non ho mai saputo come fosse arrivato fra noi.
"Torri", ragazzo sedicenne, come nome di battaglia aveva scelto quello del suo paese; appartenente ad una famiglia numerosa, era finito nei partigiani trascinato dall'esempio di altri compagni.
Riprendendo la descrizione delle nostre avventure, dopo aver varcato la frontiera cui accennavo prima, scendiamo lentamente con cautela verso Castellar, un piccolo paese sopra Mentone [...]
Giorgio Lavagna (Tigre), Dall'Arroscia alla Provenza. Fazzoletti Garibaldini nella Resistenza,  IsrecIm, ed. Cav. A. Dominici, Oneglia Imperia, 1982
 

Castellar

Arrivati in Francia Lavagna ed il suo gruppo vennero arruolati nella FSSF, First Special Service Force (chiamata anche The Devil’s Brigade, The Black Devils, The Black Devils’ Brigade, Freddie’s Freighters), reparto d’elite statunitense-canadese di commando, impiegato anche nella Operazione Dragoon nel sud della Francia, tuttavia sciolto nel dicembre 1944; a questa data, per non farsi internare, questi garibaldini furono costretti ad immatricolarsi nel 21/XV Bataillon Volontaires Etrangérs francese, nel quale prestarono servizio sino alla fine della guerra, come, del resto, Lavagna scrisse nel suo libro. Sulla controversa figura di Ernesto Corradi si possono, invece, leggere alcuni significativi passi nel recente La libera Repubblica di Pigna. Parentesi di democrazia (29 agosto 1944 - 8 ottobre 1944) (a cura di) Paolo Veziano (con il contributo di) Giorgio Caudano e di Graziano Mamone, Comune di Pigna, IsrecIm, Fusta Editore, 2020, passi che in larga misura fanno riferimento al memoriale, oggi documento depositato nell'Archivio dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia, memoriale del qui menzionato "Alberto", al secolo Giacomo Alberti, "Dritto", ma da Lavagna, come si è potuto vedere, ricordato, invece, come "Alberto".  
Adriano Maini